Un inverno mio - Luis Garcìa Montero, nota di lettura
Il nome di Luis Garcìa Montero, autore della raccolta Un inverno mio (a cura di Gabriele Morelli, Elliot, 2018), è stato da tempo accostato alla cosiddetta “poesia dell’esperienza”, come ricordato dal Curatore del volume nella sua prefazione.
non stupisce, quindi, che il testo di apertura della silloge esordisca con tre versi fulminanti nella propria semplicità:
«Il mio nome è Luis, / sono spagnolo, / vivo a Madrid,».
un incipit denotativo, retto su tre brevi frasi che immettono il lettore in un mondo poetico intimo, sorretto da un dettato sì pacato ma che, come si nota dal resto del libro, appare tutt’altro che pacificato.
non a caso, sin dalla prima lirica, la stessa dei versi di cui sopra, Montero presenta sé stesso sotto una luce non troppo lusinghiera, additandosi come «il disordine che io sono».
disordine, quindi, ma non caos. e se è vero che «il disordine / crea l’intimità,», allora ciò di cui parla l’io è forse più simile a una caldera sotterranea, che soggiace all’atto creativo, o quantomeno ne fornisce il primo spunto.
va sottolineato che tale assenza di ordine non si traduce in un dettato sgraziato, ma, al contrario, la lingua poetica appare melodiosa, non estranea alla malinconia, concretamente tradotta in versi lunghi e scanditi, senza mai scadere nella magniloquenza:
«Ricordo spesso pupille gialle / con rumore di tristi foglie / schiacciate dall’oscura scarpa della sera.»
questa precipua disposizione d’animo nei confronti della lingua permette all’io di cogliere con precisione chirurgica i fatti, anche minuti, del quotidiano esistere («Il mio segreto fu allora un quaderno vuoto»).
tendenza che talvolta cede il passo a slanci immaginari di netta evidenza e fantasiosa potenza: «Ci sono uomini aeroporto, / uomini di luna con tetto, uomini / venuti dalla selva che cercano grattacieli / e sono come i minuti di una clessidra».
evidente la nitidezza di scrittura, scevra da orpelli retorici, ma che, tuttavia, si fonde spesso con una significativa dimensione memoriale, in cui perfettamente emerge il tratto “disordinante”: i ricordi del poeta appaiono e scompaiono, si manifestano secondo un ordine sì preciso, ma noto solo alle movenze più profonde dell’inconscio umano.
un esempio di tali occorrenze lo si incontra nel testo intitolato La lingua è, più o meno, la patria del poeta… in cui l’io poetante si trova a confrontarsi con alcuni ricordi insediati da una forte componente di storia contemporanea spagnola:
«Le loro notti allegre si confondono / con le fiamme di Madrid bombardata. / Il loro alcool e la loro lealtà / conoscono i silenzi dell’interrogatorio.»
va sottolineato che il disordine di cui Montero parla non si limita alla sola componente del ricordo, ma intacca concretamente la percezione stessa del reale, che talvolta, attraverso gli occhi dell’io, appare sfumato e instabile.
ecco dunque un momento di distanziamento dalla vita in un non-luogo, un aeroporto, in cui l’io lirico afferma che «nulla è definitivo, / nulla può importarmi, / l’insuccesso del lunedì, né il mistero del sabato / con i suoi rozzi vestiti malinconici, / né il sole delle agende perdute sulla neve.»
altri due elementi, frequenti nel libro, concorrono a rendere sfocato il reale: la notte (accesa di luce lunare) e la pioggia, che, a ben pensare, si configurano come spazi dell’esistenza, indeterminati, sospesi, particolarmente adatti ad accogliere i contorni indistinti dell’io poetante.
zone di confine, si potrebbe dire, in cui vengono a cadere le vuote formalità della vita quotidiana, osservate da Montero con un senso di perdita, che aleggia in larga parte del volume: «Erano giorni di pioggia in un inverno mio. / Nemmeno le feste, / né le sere sulle vie / potevano nascondere / la debole solitudine dei saluti / senza cuore, la neve / dei passi perduti.»
se fin qui si è parlato di un sostanziale disorientamento dell’io lirico nei confronti del mondo, sia interiore che esteriore, non si deve pensare che Montero rinunci al tentativo di fissare alcune, pur sfuggenti, suggestioni. sarebbe però scorretto parlare di una poesia sentenziosa, e ancor più di un dettato dogmatico. quando l’io poetante afferma qualcosa, sembra sempre che lo stia ricordando, pur con fermezza, a sé stesso in primis.
il titolo di una poesia, in particolare, recita che «In qualsiasi inverno c’è un calore fatto a nostra misura», dando spazio a una possibilità, più che una certezza, a cui l’io sente il bisogno di affidarsi, pena lo smarrimento dentro la bufera dell’inverno.
un’altra fondamentale linea di sviluppo della raccolta è la componente amorosa, che sembra interessare soprattutto la parte finale della silloge.
Montero è poeta d’amore di grande raffinatezza, pur senza rinunciare alla concretezza quasi materica dei corpi, celebrati nella propria condizione di estrema fragilità, umanamente condivisa tramite il contatto fisico:
«Ora che di nuovo entro alla cieca / nel vecchio amore, lasciando che mi porti, / che conduca il mio corpo con le sue mani / nel profondo della pelle e della notte,».
anche in queste liriche, in cui la componente emotivo-amorosa è più manifesta, la lingua mantiene quell’unità di tono, calda e pastosa, percepibile sin dalle prime pagine del libro e capace di mantenersi ondivaga per tutta la durata della lettura.
notevole, poi, la conclusione della silloge, in cui Montero dà prova della propria abilità nella costruzione di brevi ma icastiche affermazioni, spesso poste in apertura/chiusura di testo.
viene infatti ipotizzato che, in fondo al proprio inverno, permanga una pur piccola fiammella di speranza e che, nonostante lo smarrimento difficile da contrastare: «resta una luce, un rubinetto aperto, / l’ombra di una porta mal chiusa».
***
Un testo tratto da Un inverno mio, di Luis Garcìa Montero, a cura di Gabriele Morelli, Elliot, 2018
Ci sono uomini che sembrano un paesaggio
Ci sono uomini che sembrano un paesaggio
quando chiudono la porta
e sono davanti a noi.
Ricordo spesso pupille gialle
con rumore di tristi foglie
schiacciate dall’oscura scarpa della sera.
Ricordo i sorrisi ammantati di neve
simili alla purezza,
quella valle che occulta la congiura del fango.
E ricordo deserti sulla pelle,
il bosco che vigila con i gufi sulle spalle,
silenzi che assomigliano a una stanca città,
gradinate e mani che sostengono
il tremante liquore della notte.
Ci sono uomini aeroporto,
uomini di luna con tetto, uomini
venuti dalla selva che cercano grattacieli
e sono come i minuti di una clessidra.
Così quando torno solo a casa
e il mare mi riceve nei miei occhi castani,
il mare azzurro e libero
con spuma di agosto nello specchio,
ringrazio la vita
l’occasione che mi ha dato di guardarti.
Sei in me come un mio paesaggio.
Le tue onde e le tue barche mi accompagnano.
***
Articolo a cura della redazione di Heimat
Immagine utilizzata: foto della copertina del libro, © Elliot, 2018
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