Cielo cervo - Marina Dora Martino, nota di lettura
maneggiare materiale arcano può essere uno dei compiti della poesia, il problema è come dargli voce.
Marina Dora Martino, autrice della silloge Cielo cervo, pubblicata da Interno Libri nel 2025 con prefazione di Valerio Grutt, ha tentato la via più complessa (ma forse la più fruttuosa): l’accesso all’enigma per mezzo di un potente surrealismo, non estraneo allo slancio visionario.
non sarà un caso che, in una delle primissime poesie, ci si possa imbattere in versi come: «le sorelle che non ho mai avuto sussurrano / nel fischio del riscaldamento».
si badi bene, però: ridurre a “semplice” visionarietà estatica la poesia di Cielo cervo rischia di sviare rapidamente il lettore e indirizzarlo su un binario banalizzante, eccessivamente riduttivo.
la voce che anima i testi della raccolta appare molto più stratificata e, soprattutto, perennemente tesa, estroflessa verso un altro che è costante richiamo, al punto da diventare ossessione: «amici fiutate la soglia / io scassino la porta».
leggendo Cielo cervo, fin dalle prime pagine, si viene messi dinnanzi a immagini di grandissima precisione e nitidezza, ma stranianti a sufficienza da lasciar intendere che dietro al velo dell’enigma non si nasconda un mero esercizio di stile, ma qualcosa di ben più profondo e radicato. ecco allora l’io lirico che, in modo perturbante, annota: «assisto alla veglia del chiodo / nello zoccolo» oppure «il pomeriggio fischia / come lo spillo che tiene l’ape».
si tratta di esempi puntiformi, ma tutt’altro che isolati all’interno del dettato poetico, che si compone principalmente di immagini affastellate le une sulle altre, in maniera affannata, ma non caotica. figlio di un’urgenza, il flusso visivo di Cielo cervo si concretizza in numerosissimi flash e intuizioni visive dalla carica dirompente, stralunate quanto basta perché lascino pensare alla saggezza dei folli: «morire è sognare / di aver già visto / il serpente appeso al chiodo».
se fin qui si è parlato di conoscenza arcana, va precisato un ulteriore aspetto della poesia multiforme dell’Autrice: mai l’accesso al mondo altro diviene occasione per snocciolare “dall’alto” verità pre-confezionate o pillole di saggezza. ciò non significa che in Cielo cervo si rinunci preventivamente alla possibilità di tradurre su carta alcune istanze profonde e veritiere, ma il modo con cui viene condotta questa operazione la mette al riparo da ogni possibile fraintendimento. l’Autrice sceglie infatti di disseminare questa sapienzialità allucinata, se così si può chiamare, in una serie di eco di cui è possibile carpire solo un frammento: «neanche gli animali possono guadare / solchi senz’acqua».
a proposito di animali, appare abbastanza lampante la presenza di una isotopia semantica di grande rilevanza: quella del bosco, inteso come essere vivente e brulicante, magmatico nel proprio pulsare di vita vegetale e animale, che non esita a trovare casa all’interno dei versi ribollenti dell’Autrice, in cui «arriva il sentore delle meraviglie / che mi aspettano / tra le bramosie dei funghi».
altro aspetto non secondario è, paradossalmente (ma Cielo cervo tenta la coincidenza degli opposti), il grande controllo anti-lirico esercitato dall’Autrice sui propri testi. mai si cede terreno all’ascesa lirica, andando sempre a spezzarle le reni ogni volta che essa tenta di rialzarsi e spiccare il volo: «con la testa serrata nell’oro / pugnalo la mia gemella», e ancora «nella stanza del faro ti ho sepolto / prima ti ho lavato con la candeggina».
potrebbe ora essere lecito chiedersi se, in questo contesto così intimamente franto, la struttura macrotestuale ne risenta. ebbene, la risposta è no. pur non essendoci uno sviluppo macroscopico immediatamente apprezzabile (come ad esempio una divisione in sezioni o una progressione di tipo narrativo), è anche vero che la seconda metà del volume vanta almeno un paio di “zone” in cui le poesie vengono intrecciate attraverso una serie di rimandi vicendevoli.
altro elemento che, forse, tradisce una precisa attività di sistemazione dei testi è il fatto che alcuni dei versi più significativi siano strategicamente collocati in chiusa di componimento a circa metà libro. si tratta di una delle affermazioni più linearmente comprensibili, ma anche di una straordinaria dichiarazione di poetica, con la quale appare giusto concludere questa breve incursione in Cielo cervo:
«ho già capito tutto / e non lo dirò mai a nessuno».
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Alcuni testi estratti da Cielo cervo, di Marina Dora Martino, prefazione di Valerio Grutt, Interno Libri, 2025
con le lame che hai ordinato per rasarti
taglio le palpebre ai vitelli
che in cecità non trovino la strada alle madri
ho divorato l’armonia delle tu costole
su quel divano dove hai portato via la sera
con forchetta e coltello
ad ogni singulto aggiungevo armenti
mandria generatrice di malinconia-moneta
sotto i piedi sporchi del buio
con le lame del tuo rasoio
sbarro gli occhi ai vitelli
che al buio non trovino la strada alle madri
***
sono un sogno stupefacente
sognandomi ti guasti la testa
ti dirigo all’annientamento
come la spiga verso il frantoio
l’albero ritira le mele
si ammala di nostalgia
il latte ti taglia la bocca
e non puoi richiamare i tuoi cani
quella che aspetta sotto la terra
prepara il letto
mentre a tavola singhiozzi
sui gusci di noce
all’inverno hai già dato tutto
non hai mogli o piume
io sognata sarò il tuo sogno
non acqua per la tua fronte
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Articolo a cura della redazione di Heimat
Immagine utilizzata: foto della copertina del libro, © Interno Libri, 2025
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